«Putissimo pure ammazzarlo», impreca durante l’ora d’aria Totò Riina, il capo dei capi, con il compagno di socialità Alberto Lorusso. Non sa di essere intercettato. E non sa che il suo pensiero, le sue minacce, sono la riprova inconfutabile che la Chiesa è uno dei principali nemici della mafia. Riina vorrebbe morto don Luigi Ciotti, fondatore e instancabile animatore di Libera. Lo accosta a don Pino Puglisi, e non è un caso.
Il boss di Cosa Nostra parla con rabbia e acredine del parroco di Brancaccio ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, il giorno del suo compleanno ed elevato agli onori degli altari. Proprio non se lo sa spiegare Riina, perché Puglisi si comportava in quel modo. Ma come? Il parroco deve dire Messa, benedire, celebrare matrimoni e funerali, guidare la processione, ma non uscire dai suoi confini: la chiesa, la canonica, la sacrestia. E, invece, don Puglisi “sconfinava”, faceva di tutto per rendere vivibile un quartiere invivibile, una delle borgate a più alta densità mafiosa di Palermo: voleva una scuola media, un centro per il doposcuola e il catechismo, un oratorio. Voleva un po’ di verde e addirittura un comitato civico. E aveva sfilato in corteo il 23 maggio e il 19 luglio in occasione dell’anniversario delle stragi di Cosa Nostra, aderendo al “Comitato dei lenzuoli” che ricordavano Falcone e Borsellino.
«Il quartiere voleva comandare», commenta il boss con disprezzo. «Ma tu fatti parrino (prete, ndr), pensa alle Messe, lasciali stare… Il territorio, il campo, la Chiesa… Lo vedete cosa voleva fare?». Quella di Puglisi è la Chiesa che “interferisce”, per usare un’espressione cara a don Ciotti.
Non sorprende l’analogia tra don Puglisi e il fondatore e animatore di Libera. «Per me», ha commentato a caldo dopo la notizia delle minacce di Riina, «l’impegno contro la mafia è da sempre un atto di fedeltà al Vangelo, alla sua denuncia delle ingiustizie, della violenza, al suo stare dalla parte delle vittime, dei poveri, degli esclusi».
Lo aveva ripetuto anche a papa Francesco, durante la Giornata della memoria e dell’impegno del 21 marzo scorso celebrata nella parrocchia romana di San Gregorio, dedicata alle vittime di tutte le mafie. E quell’incontro era rimasto ben presente nella memoria del Pontefice, quando in Calabria levò la sua voce contro i mafiosi, scomunicandoli e invitandoli a convertirsi.
Le parole di Riina sono anche una provocazione a riflettere e ad agire. Sono il segnale che l’azione evangelica, ecclesiale e sociale contro le mafie funziona e dà i suoi frutti, ma che tutti dobbiamo proseguire nell’impegno tracciato dal sacerdote. La reazione del boss dà ragione al procuratore di Palermo della stagione delle stragi mafiose Nino Caponnetto, che diceva che «la mafia alla lunga ha più paura della scuola che della polizia».
Le mafie, per don Ciotti, «sanno fiutare il pericolo, sentono che l’insidia, oltre che dalle Forze di polizia e da gran parte della magistratura, viene dalla ribellione delle coscienze». Per questo rafforzare la scorta a questo sacerdote che porta avanti l’intransigenza etica del Vangelo non basta. Servono leggi contro la corruzione, servono norme più rapide sulla confisca dei beni mafiosi. E serve soprattutto un moto collettivo delle coscienze per far capire alla mafia che don Ciotti non è solo, è uno di noi.
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