Mr. Eric Khoo Heng-Pheng (Malaysia)
Mr. Wahid Labidi (Tunisia)Mr. John May (United Kingdom)
Mr. John Neysmith (Canada)Mr. Oscar Palmquist (Brazil)
Mr. Simon Rhee (Korea)
Per un termine di tre anni: Mr. William F. “Rick” Cronk (USA)
Chiedo a Mariano, nella delegazione del CNGEI e mio compagno di stanza, di scrivere lui il post per il blog... ecco il suo resoconto semiserio tragicomico...
Al solito la sveglia di Sergio suona prima di quella dell’hotel, da me opportunamente programmata ogni sera usando il telefono, con l’ausilio di una voce che parla il difficilissimo coreano, seguito dall’usatissimo giapponese, per concludere poi con un inglese sdrucciolevole, come le erre pronunciate elle (davvero, non per scherzo).
Sergio si fionda in bagno. Questione lunga. Ne approfitto per indugiare un po’ nel letto, ma alle 8.00 abbiamo riunione di delegazione e non possiamo permetterci di fare tardi: stamani in conferenza si votano i delegati ed è chiaramente un momento importante. Sicché mi alzo e comincio a preparare lo zaino, sempre ingombro di inutilierie varie: regali delle delegazioni, souvenir dal dubbio gusto, spille scout ultimo grido che finiranno in un cassetto e gadget sospesi tra l’eccentrico e il bizzarro.
Poi il bagno si libera, finisco di prepararmi e usciamo., ma siamo in ritardo sulla tabella di marcia di circa 10 minuti. Giunti all’ascensore, Sergio ricorda di avere dimenticato il foulard ed al ritardo si accumulano ulteriore cinque minuti: con tutta probabilità, dovremo rinunciare alle uova strapazzate perché non ci sarà il tempo di consumare la solita, iperbolica colazione.
Invece quando entriamo in sala da pranzo ci sono solo Babacar e Luca sicché possiamo agguantare con avidità i piatti e riempirli a dismisura. Sergio non manca di variare il suo comune menu mattutino e aggiunge ad un bacon sempre saporito e bruciacchiato, le uova strappazzate affogate nella mostarda, puntellate di peperoncino e sposate con due wurstel che hanno tutta l’aria di sentirsi a disagio. Accanto a questo, non mancano ovviamente dolcetti, pane, succo d’arancia e quella strana bevanda marrone che si ostinano qui a chiamare caffè.
Poi si sale, verso le poltrone che ogni mattina accolgono le nostre riunioni di delegazione. Sembra un po’ di essere alle Nazioni Unite, quando gli Stati mettono a punto le proprie strategie per massimizzare il risultato della propria azione diplomatica. Compaiono innumerevoli fogli vergati da penne di colore diverso, si ipotizza la geografia del Comitato mondiale da eleggere, si fanno calcoli – a volte anche complessi – sul numero di voti da esprimere, sulle geometrie variabili della conferenza, sui quorum per essere eletti o restare a mani vuote. Lo scambio è in parte vivace, com’è giusto che sia in questi casi. L’autobus per la conferenza costituisce un pungolo a chiudere le cartine geografiche del voto, la mappe degli scenari possibili. L’Italia sosterrà sei candidati, Un colpo al cerchio e uno alla botte. Non a caso Molotov ebbe a dire che la nostra è una nazione troppo debole per poter fare da sola ma troppo forte per essere ignorata negli scenari internazionali.
Alla meditazione che fa da anticamera alla sessione di voto ci sono solo io, gli altri persi nei passaggi segreti fitti di scale mobili e trappole informative del diafano International Convention center di Jeju. Poi il presidente apre la sessione di voto e uno alla volta i Paesi candidati vanno a riporre il proprio foglietto verde nell’urna. Non mancano scena ad un tempo ilari e significative.
Alcune delegazioni consegnano il proprio foglio aperto, a testimonianza di come la pratica del voto segreto, un po’ dietrologico, appartenga poco alla loro cultura. Vuoi perché spesso le cose funzionano più spontaneamente, vuoi perché la democrazia è esercizio in molti casi ancora assai lontano dalla realtà viva e concreta. Molti si fermano per farsi immortale davanti all’urna trasparente, creando più di qualche intralcio nella coda e spingendo lo speaker anglofono a guardare rassegnato, in qualche caso ad alzare le spalle. La delegata kazaka per l’occasione ha sfoggiato un vestitino a fiori niente male, della serie “c’è un grande prato verde dove nascono speranze”. Il delegato di una nazione europea non ha rinunciato al sandalo sotto il jeans nemmeno in questa circostanza: questione marginale, si dirà. Ma è pur vero che “solo i superficiali non giudicano dall’apparenza”, rammentava Oscar Wilde. Anche Roberto si fa immortalare al momento del voto, mentre dietro i seggi delle delegazioni i candidati aspettano trepidanti. Alla fine qualcuno alza il suo cartellino verde: non è stato chiamato o – più probabilmente – non si è alzato al momento giusto. Lo speaker invita senza parlare a gettare il foglio nel calderone e chi si è visto si è visto.
Poi i canadesi presentano il Rovermoot 2013. Non ci sono candidati alternativi sicché si rinuncia al volto segreto e la location dell’evento è fissata senza difficoltà, con nessun voto contrario e un’astensione. Ora, cosa ci sia da astenersi su questo punto resta arduo da capire. Ma fa scena poter alzare in solitudine il cartellino rosso, con la telecamera che ti inquadra sui maxischermi messi a punto dall’efficiente comitato organizzatore coreano. Dona quel tocco di notorietà e di eleganza da sempre estranea al più comprensibili voto favorevole o contrario. Anch’io un giorno sogno di alzare un cartellino di astensione di fronte ad una platea così distinta e numerosa e poi spiegare che ci sono delle “irrinunciabili ragioni per cui la nostra delegazione ha ritenuto opportuno sospendere il giudizio su questo provvedimento e lasciare che l’assemblea deliberasse in coscienza”, con quel linguaggio diplomatico che è sempre così chic. Charmant.
Prima dei workshop arriva il coffee break in cui incontriamo il capo delegazione della Libia e cerchiamo pure di dargli un regalo opportunamente portato da Babacar. Ma il nostro commissario internazionale nel momento topico scompare e Sergio resta lì a stringere la mano del libico nella speranza che io riesca a trovare una soluzione alternativa che non giunge. Sarà per un’altra volta.
Prima dei laboratori, Sergio chiede a tutti di scrivere cinque righe come report della sessione seguita. Va da sé che a mezzogiorno, a lavori ultimati, perviene solo il mio foglio e manca all’appello, tra gli altri, proprio il suo. Ma lui è contento di aver portato un altro manualetto che si aggiunge alle quattro buste di gadget che ingombrano la sua ala della camera, in bilico sul valigione gonfio di abiti e medicinali, a ridosso dei tre zainetti in uso (quello italiano, quello della conferenza, e quello regalatogli da Singapore), e sotto la sacca della Laundry di cui non ha alcuna intenzione di servirsi. Tant’è, nella vita ognuno è fatto a modo suo.
Poi arriva il momento dell’annuncio degli eletti. Siamo tutti lì a scrivere, nella speranza che i piani strategici elaborati al mattino risultino vincenti. Qualcuno caccia di nuovo le mappe geografiche e le cartine puntellate a mo’ di Risiko. L’annuncio dei voti è una doccia fredda. Anzi ghiacciata. Anzi diciamo che ha il sapore della secchiata d’acqua che ti getta la vecchia infingarda quanto un minuto dopo la mezzanotte indugi ancora a parlare sotto la sua finestra, chiusa da quando Lilly Gruber ha smesso di leggere il TG1 e ha deciso di candidarsi al parlamento europeo. Per carità, quattro dei delegati che abbiamo votato risultano eletti. Alexandro, il quinto, nazionalità greca, non ce la fa. E purtroppo resta al palo anche Gregory Sanchez, belga, da noi appoggiato in pratica dalla prima ora, nella certezza che avrebbe varcato le porte di Ginevra. Invece non sarà così. Le cartine spariscono, qualcuno asserisce di non averle nemmeno mai viste. Lo sgomento non manca, ma è l’ironia quella che domina. Questi italiani, sempre troppo idealisti, capaci di avere successo all’ONU con la moratoria internazionale sulla pena di morte e incapaci di leggere nella sfera di cristallo di Wosm.
Nell’andare a pranzo, Sergio offre ulteriore prova della sua tendenza allo shopping compulsivo e acritico. Raggiante perché sono arrivate le polo ricamate, assai migliori delle magliette col logo appiccicato a mo’ di adesivo, il nostro capo scout si fionda allo stand dello scout shop. Apprende sgomento che gli devo 10.000 won per un disguido occorso nel suo ultimo shopping e che sarebbe qui troppo lungo spiegare. E forte del suo credito, corrispondente a ben 6 euro, dà mandato alla shop assistant di riempire una busta con polo fucsia sgargiante e verde fosforescente che qualcuno apprezzerà con lo stesso piglio educato di chi, ricevendo un regalo che già ha, non ha il cuore di dire al donatore la verità e mente entusiasta dicendo “è proprio ciò che mi serviva”. E ai campi una polo in più serve sempre, soprattutto quando ce l’hai solo tu e puoi sfoggiarla come medaglia al valor civile.
A pranzo Sergio si fa prendere dall’abbiocco: vuole rinunciare alla visita a Jeju, prevista dal programma della conferenza, per andare a rilassarsi in hotel. Babacar gli fa da sponda. Luca asserisce di voler andare in spiaggia. Messo all’angolo, reagisco e, con molta più realpolitik di quella sperimentate per le elezioni, propongo di andare a Jeju ma di saltare la serata in città. Sergio e Babacar accettano mentre Luca si perde da qualche parte.
Appena scesi dal pullman, ci troviamo di fronte un giardino botanico immerso in una coltre di calore tropicale, talmente asfissiante che cedo a Sergio il primo punto della battaglia Jeju\hotel. Uno a zero per lui: al momento non sembra proprio che sia valsa la pena venire. Poi l’agronomo che è in lui si sveglia, e il capo scout comincia scattare foto con piglio giapponese kentie, cicas, cactus e fiori dai nomi impronunciabili e tutto sommato inutili da ricordare. Il punteggio sale dunque sull’uno a uno. Ma poi la stanza dedicata ai fiori è da Sergio definita un’accozzaglia inutile, che vanifica la magia del giardino tropicale, della giungla e dell’habitat dei cactus, sicché si va sul 2 a 1 per lui. Per riscattarmi propongo di salire in cima all’edificio con l’ascensore per ammirare l’isola di Jeju, il che mi permette di strappare un pareggio che sarà poi confermato alla fine del pomeriggio, trascorso con alterne vicende tra viali di bonsai, negozi di souvenir del tutto improbabili, cascate d’acqua tutto sommato gradevoli e la ricostruzione di un villaggio antico dal’aria un po’ artefatta ma nel complesso carino.
Al rientro in hotel Sergio riesce a realizzare uno dei suoi principali obiettivi, alla faccia della conferenza ed in barba alla strategia del lutto che avrebbe dovuto caratterizzare la giornata italiana dopo la secchiata d’acqua delle votazioni. In altre parole, andiamo a fare la sauna. Tra bagno turco, tepidarium, frigidarium, sauna finnica, vasca d’acqua calda, docce a getto continuo e sauna a infrarossi, trascorriamo una serata piacevolissima, vagamente tinta di rosa solo da un simpatico coreano 50enne che ci prova con me con molto tatto e signorilità. Mi dice che sono bello, che gli piacciono gli italiani, che ama la nostra cucina e così via. Ma va via a mani vuote: starà qui solo altri due giorni ed è venuto da solo. Buona fortuna.
Il bagno in piscina che segue la sauna non è altrettanto piacevole. L’acqua è alta al più 1,2 metri e i bagnanti non manco di far galleggiare tavolette, braccioli, ciambelle e perfino un’automobile gonfiabile dalla dubbia utilità. Decidiamo dunque di salire in stanza e Sergio, dimentico delle avances del coreano, mi lascia da solo nello spogliatoio, senza che tuttavia si verifichino altre indecent proposals.
A cena optiamo per il ristorante coreano dove mangiamo di tutto di più in compagnia di Babacar, reduce da una nuotata nel Pacifico (gli avevamo dato appuntamento in piscina, ma ci eravamo dimenticati di lui per via della sauna e del coreano). Le pietanze sono di tutto rispetto, c’è anche un caciucco locale. Il conto non è altrettanto piacevole, ma c’è poco da fare. Bisognava pur tirarsi su dopo una giornata come questa.
Indi eccoci qui in hotel, dopo un caffè all’italiana uscito fumante dalla macchinetta elettrica che Sergio aveva portato per il festival internazionale e che chiaramente in quella circostanza non abbiamo potuto usare perché non c’era la corrente. E perché l’avevamo lasciata in hotel. Si parla un po’ in video chat su skype e poi tutti pronti per il blog. Unica magra consolazione al fallimento della nostra strategia.
Historia magistra vitae, gente. Non abbiamo sbagliato, non fatelo anche voi. O, in alternativa, apritevi un blog per sfogare le delusioni. Non prima di una bella sauna.
Sergio si fionda in bagno. Questione lunga. Ne approfitto per indugiare un po’ nel letto, ma alle 8.00 abbiamo riunione di delegazione e non possiamo permetterci di fare tardi: stamani in conferenza si votano i delegati ed è chiaramente un momento importante. Sicché mi alzo e comincio a preparare lo zaino, sempre ingombro di inutilierie varie: regali delle delegazioni, souvenir dal dubbio gusto, spille scout ultimo grido che finiranno in un cassetto e gadget sospesi tra l’eccentrico e il bizzarro.
Poi il bagno si libera, finisco di prepararmi e usciamo., ma siamo in ritardo sulla tabella di marcia di circa 10 minuti. Giunti all’ascensore, Sergio ricorda di avere dimenticato il foulard ed al ritardo si accumulano ulteriore cinque minuti: con tutta probabilità, dovremo rinunciare alle uova strapazzate perché non ci sarà il tempo di consumare la solita, iperbolica colazione.
Invece quando entriamo in sala da pranzo ci sono solo Babacar e Luca sicché possiamo agguantare con avidità i piatti e riempirli a dismisura. Sergio non manca di variare il suo comune menu mattutino e aggiunge ad un bacon sempre saporito e bruciacchiato, le uova strappazzate affogate nella mostarda, puntellate di peperoncino e sposate con due wurstel che hanno tutta l’aria di sentirsi a disagio. Accanto a questo, non mancano ovviamente dolcetti, pane, succo d’arancia e quella strana bevanda marrone che si ostinano qui a chiamare caffè.
Poi si sale, verso le poltrone che ogni mattina accolgono le nostre riunioni di delegazione. Sembra un po’ di essere alle Nazioni Unite, quando gli Stati mettono a punto le proprie strategie per massimizzare il risultato della propria azione diplomatica. Compaiono innumerevoli fogli vergati da penne di colore diverso, si ipotizza la geografia del Comitato mondiale da eleggere, si fanno calcoli – a volte anche complessi – sul numero di voti da esprimere, sulle geometrie variabili della conferenza, sui quorum per essere eletti o restare a mani vuote. Lo scambio è in parte vivace, com’è giusto che sia in questi casi. L’autobus per la conferenza costituisce un pungolo a chiudere le cartine geografiche del voto, la mappe degli scenari possibili. L’Italia sosterrà sei candidati, Un colpo al cerchio e uno alla botte. Non a caso Molotov ebbe a dire che la nostra è una nazione troppo debole per poter fare da sola ma troppo forte per essere ignorata negli scenari internazionali.
Alla meditazione che fa da anticamera alla sessione di voto ci sono solo io, gli altri persi nei passaggi segreti fitti di scale mobili e trappole informative del diafano International Convention center di Jeju. Poi il presidente apre la sessione di voto e uno alla volta i Paesi candidati vanno a riporre il proprio foglietto verde nell’urna. Non mancano scena ad un tempo ilari e significative.
Alcune delegazioni consegnano il proprio foglio aperto, a testimonianza di come la pratica del voto segreto, un po’ dietrologico, appartenga poco alla loro cultura. Vuoi perché spesso le cose funzionano più spontaneamente, vuoi perché la democrazia è esercizio in molti casi ancora assai lontano dalla realtà viva e concreta. Molti si fermano per farsi immortale davanti all’urna trasparente, creando più di qualche intralcio nella coda e spingendo lo speaker anglofono a guardare rassegnato, in qualche caso ad alzare le spalle. La delegata kazaka per l’occasione ha sfoggiato un vestitino a fiori niente male, della serie “c’è un grande prato verde dove nascono speranze”. Il delegato di una nazione europea non ha rinunciato al sandalo sotto il jeans nemmeno in questa circostanza: questione marginale, si dirà. Ma è pur vero che “solo i superficiali non giudicano dall’apparenza”, rammentava Oscar Wilde. Anche Roberto si fa immortalare al momento del voto, mentre dietro i seggi delle delegazioni i candidati aspettano trepidanti. Alla fine qualcuno alza il suo cartellino verde: non è stato chiamato o – più probabilmente – non si è alzato al momento giusto. Lo speaker invita senza parlare a gettare il foglio nel calderone e chi si è visto si è visto.
Poi i canadesi presentano il Rovermoot 2013. Non ci sono candidati alternativi sicché si rinuncia al volto segreto e la location dell’evento è fissata senza difficoltà, con nessun voto contrario e un’astensione. Ora, cosa ci sia da astenersi su questo punto resta arduo da capire. Ma fa scena poter alzare in solitudine il cartellino rosso, con la telecamera che ti inquadra sui maxischermi messi a punto dall’efficiente comitato organizzatore coreano. Dona quel tocco di notorietà e di eleganza da sempre estranea al più comprensibili voto favorevole o contrario. Anch’io un giorno sogno di alzare un cartellino di astensione di fronte ad una platea così distinta e numerosa e poi spiegare che ci sono delle “irrinunciabili ragioni per cui la nostra delegazione ha ritenuto opportuno sospendere il giudizio su questo provvedimento e lasciare che l’assemblea deliberasse in coscienza”, con quel linguaggio diplomatico che è sempre così chic. Charmant.
Prima dei workshop arriva il coffee break in cui incontriamo il capo delegazione della Libia e cerchiamo pure di dargli un regalo opportunamente portato da Babacar. Ma il nostro commissario internazionale nel momento topico scompare e Sergio resta lì a stringere la mano del libico nella speranza che io riesca a trovare una soluzione alternativa che non giunge. Sarà per un’altra volta.
Prima dei laboratori, Sergio chiede a tutti di scrivere cinque righe come report della sessione seguita. Va da sé che a mezzogiorno, a lavori ultimati, perviene solo il mio foglio e manca all’appello, tra gli altri, proprio il suo. Ma lui è contento di aver portato un altro manualetto che si aggiunge alle quattro buste di gadget che ingombrano la sua ala della camera, in bilico sul valigione gonfio di abiti e medicinali, a ridosso dei tre zainetti in uso (quello italiano, quello della conferenza, e quello regalatogli da Singapore), e sotto la sacca della Laundry di cui non ha alcuna intenzione di servirsi. Tant’è, nella vita ognuno è fatto a modo suo.
Poi arriva il momento dell’annuncio degli eletti. Siamo tutti lì a scrivere, nella speranza che i piani strategici elaborati al mattino risultino vincenti. Qualcuno caccia di nuovo le mappe geografiche e le cartine puntellate a mo’ di Risiko. L’annuncio dei voti è una doccia fredda. Anzi ghiacciata. Anzi diciamo che ha il sapore della secchiata d’acqua che ti getta la vecchia infingarda quanto un minuto dopo la mezzanotte indugi ancora a parlare sotto la sua finestra, chiusa da quando Lilly Gruber ha smesso di leggere il TG1 e ha deciso di candidarsi al parlamento europeo. Per carità, quattro dei delegati che abbiamo votato risultano eletti. Alexandro, il quinto, nazionalità greca, non ce la fa. E purtroppo resta al palo anche Gregory Sanchez, belga, da noi appoggiato in pratica dalla prima ora, nella certezza che avrebbe varcato le porte di Ginevra. Invece non sarà così. Le cartine spariscono, qualcuno asserisce di non averle nemmeno mai viste. Lo sgomento non manca, ma è l’ironia quella che domina. Questi italiani, sempre troppo idealisti, capaci di avere successo all’ONU con la moratoria internazionale sulla pena di morte e incapaci di leggere nella sfera di cristallo di Wosm.
Nell’andare a pranzo, Sergio offre ulteriore prova della sua tendenza allo shopping compulsivo e acritico. Raggiante perché sono arrivate le polo ricamate, assai migliori delle magliette col logo appiccicato a mo’ di adesivo, il nostro capo scout si fionda allo stand dello scout shop. Apprende sgomento che gli devo 10.000 won per un disguido occorso nel suo ultimo shopping e che sarebbe qui troppo lungo spiegare. E forte del suo credito, corrispondente a ben 6 euro, dà mandato alla shop assistant di riempire una busta con polo fucsia sgargiante e verde fosforescente che qualcuno apprezzerà con lo stesso piglio educato di chi, ricevendo un regalo che già ha, non ha il cuore di dire al donatore la verità e mente entusiasta dicendo “è proprio ciò che mi serviva”. E ai campi una polo in più serve sempre, soprattutto quando ce l’hai solo tu e puoi sfoggiarla come medaglia al valor civile.
A pranzo Sergio si fa prendere dall’abbiocco: vuole rinunciare alla visita a Jeju, prevista dal programma della conferenza, per andare a rilassarsi in hotel. Babacar gli fa da sponda. Luca asserisce di voler andare in spiaggia. Messo all’angolo, reagisco e, con molta più realpolitik di quella sperimentate per le elezioni, propongo di andare a Jeju ma di saltare la serata in città. Sergio e Babacar accettano mentre Luca si perde da qualche parte.
Appena scesi dal pullman, ci troviamo di fronte un giardino botanico immerso in una coltre di calore tropicale, talmente asfissiante che cedo a Sergio il primo punto della battaglia Jeju\hotel. Uno a zero per lui: al momento non sembra proprio che sia valsa la pena venire. Poi l’agronomo che è in lui si sveglia, e il capo scout comincia scattare foto con piglio giapponese kentie, cicas, cactus e fiori dai nomi impronunciabili e tutto sommato inutili da ricordare. Il punteggio sale dunque sull’uno a uno. Ma poi la stanza dedicata ai fiori è da Sergio definita un’accozzaglia inutile, che vanifica la magia del giardino tropicale, della giungla e dell’habitat dei cactus, sicché si va sul 2 a 1 per lui. Per riscattarmi propongo di salire in cima all’edificio con l’ascensore per ammirare l’isola di Jeju, il che mi permette di strappare un pareggio che sarà poi confermato alla fine del pomeriggio, trascorso con alterne vicende tra viali di bonsai, negozi di souvenir del tutto improbabili, cascate d’acqua tutto sommato gradevoli e la ricostruzione di un villaggio antico dal’aria un po’ artefatta ma nel complesso carino.
Al rientro in hotel Sergio riesce a realizzare uno dei suoi principali obiettivi, alla faccia della conferenza ed in barba alla strategia del lutto che avrebbe dovuto caratterizzare la giornata italiana dopo la secchiata d’acqua delle votazioni. In altre parole, andiamo a fare la sauna. Tra bagno turco, tepidarium, frigidarium, sauna finnica, vasca d’acqua calda, docce a getto continuo e sauna a infrarossi, trascorriamo una serata piacevolissima, vagamente tinta di rosa solo da un simpatico coreano 50enne che ci prova con me con molto tatto e signorilità. Mi dice che sono bello, che gli piacciono gli italiani, che ama la nostra cucina e così via. Ma va via a mani vuote: starà qui solo altri due giorni ed è venuto da solo. Buona fortuna.
Il bagno in piscina che segue la sauna non è altrettanto piacevole. L’acqua è alta al più 1,2 metri e i bagnanti non manco di far galleggiare tavolette, braccioli, ciambelle e perfino un’automobile gonfiabile dalla dubbia utilità. Decidiamo dunque di salire in stanza e Sergio, dimentico delle avances del coreano, mi lascia da solo nello spogliatoio, senza che tuttavia si verifichino altre indecent proposals.
A cena optiamo per il ristorante coreano dove mangiamo di tutto di più in compagnia di Babacar, reduce da una nuotata nel Pacifico (gli avevamo dato appuntamento in piscina, ma ci eravamo dimenticati di lui per via della sauna e del coreano). Le pietanze sono di tutto rispetto, c’è anche un caciucco locale. Il conto non è altrettanto piacevole, ma c’è poco da fare. Bisognava pur tirarsi su dopo una giornata come questa.
Indi eccoci qui in hotel, dopo un caffè all’italiana uscito fumante dalla macchinetta elettrica che Sergio aveva portato per il festival internazionale e che chiaramente in quella circostanza non abbiamo potuto usare perché non c’era la corrente. E perché l’avevamo lasciata in hotel. Si parla un po’ in video chat su skype e poi tutti pronti per il blog. Unica magra consolazione al fallimento della nostra strategia.
Historia magistra vitae, gente. Non abbiamo sbagliato, non fatelo anche voi. O, in alternativa, apritevi un blog per sfogare le delusioni. Non prima di una bella sauna.
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